sabato 26 marzo 2011

PINO MANZARI- PER COSTA


La difficile arte dell'ascolto

Pino Manzari è uno degli allievi  storici di Orazio Costa. Diplomatosi all'Accademia nazionale d'arte drammatica Silvio D'Amico, è stato, giovanissimo, scelto da Costa per interpretare ruoli da protagonista ne Il Mistero e La Vita Nova. Ha portato avanti il magistero del maestro dirigendo l'esperienza straordinaria della Scuola mimica a Bari. E' riconosciuto da tutti gli ex allievi come figura istituzionale di riferimento per il Metodo Mimico applicato, secondo le indicazioni del maestro.

Mi metto in ascolto.., ecco... : vramm... cirp... tung... bang.., snap e poi l'atteso inevitabile crack;vengono da fuori a confondersi con l'usuale domestico tramestio «nel cuore rumoroso della casa», alla Kafka... ma debbo scrivere sull'ascolto e pur sospeso sull'orlo incomodo dei rumori devo riappropriarmi del silenzio...penso a quanto tempo della mia vita di teatrante è stato dedicato all'ascolto, alle infinite ore di prova per fare nostre parole di altri, masticando suoni, ruminando... Penso alla paziente, ostinata decifrazione dei minuti segni neri sulle pagine bianche dei copioni per costringerli a rivelarci i cerimoniali, gli spazi e perfino i gesti, le posture, la direzione degli sguardi di altri tempi... provando e riprovando pur di riuscire a fare presenti, nel qui e adesso del palcoscenico, vite altre dalle nostre. Ci spingeva a questa avventura la convinzione che la nostra fatica di esistere e il nostro desiderio di essere vivi avrebbero tratto luce e forza dai testi che affrontavamo, purché avessimo il coraggio di mettere fra parentesi l'io nostro, spesso così convinto di sé, per gli io altri che il testo ci offriva perché li prendessimo con noi. Per esprimere la vita di un altro, l'io era costrettto a umiliarsi, a volte fino alla rinuncia, fino a mutare la sua voce propria, che è come dire il corpo proprio, per essere corpo e voce data con ricchezza di timbri e di toni, e con risonanze vocaliche e vibrazioni e percussioni consonantiche, a un altro da sé.

Nel nostro porci davanti al testo per lasciarci inabitare, nel faccia a faccia o nel corpo a corpo con il testo, come avviene a volte nella prova teatro, non appare un modello esemplare di cosa sia ascoltare e dialogare? L'ascolto esiste, si sostanzia, non con l'apertura pura e semplice del sistema chiuso del-10,l'io, accogliendo l'altro, ma quando l'altro suscita in me un movimento necessario, diventa per me un cammino da percorrere. «Questo è lo strano: ognuno conosce se stesso mille volte meglio, sa di sé mille volte di più di quel che sa di un altro, anche il più vicino, e tuttavia l'altro non ci appare mai così frammentario, così lacunoso, così incoerente come noi appariamo a noi stessi» ha detto George Simmel nel suo diario l. L'altro che in qualche modo mi parla di sé, pure se è povero e misero, mi appare un groviglio esuberante di vita, ricco di profonde esperienze... e la vita che nell'altro risuona diventa la scoperta di un campo di libertà, sco­pro che la mia stessa vita non è costretta nella necessità di un destino marcato, non è una strada a senso unico, ma piuttosto un flusso di alternative possibili. II complesso mistero dell'altro che mi è stato dato di intravedere, che è stato palpabile e sensibile, anche solo per un istante, è diventato conoscenza di me. Nell'incontro ci scopriamo non più semplici e inerti spettatori della vita ma viandanti di interni labirinti interpellati a sceglierci nella libertà. Immersi nel culto della tecnica possiamo essere tentati di cercare forme ideali che ci si impongano, perché assumendole ci liberiamo del peso della scelta e della libertà; ma ognuno finisce sempre col trovarsi nella sua unicità irripetibile. La voce che mi ha manifestato la vita, di un altro mi appare sempre trascendente rispetto alla immagine di vita che io finora mi ero proiettata. Ora posso procedere con e grazie all'altro, prendo parte attiva alla costruzione dell"altro in me; egli avrà più spazio in me nella misura in cui sarò l'ascoltatore del suo mistero, ora lo costruisco insieme a lui mentre sono da lui costruito. L'ascolto mi ha permesso di trovare un compagno di strada, ci troviamo insieme coinvolti on una avventura comune.

Sto parlando, naturalmente, di un teatro che non si occupa di produrre spettacoli come oggetti estetici inerti ma si considera l'occasione di un invito, di una convocazione estesa a gruppi, attori e e spettatori, perchè procedano insieme costruendo e ricostruendo sulle macerie dei loro fallimenti.Quando apprendiamo a cercare il senso di ogni frammento che compone una storis, non tentiamo di sottrarci alla precarietà e alla finitezza della nostra vicenda, ma sappiamo che individuato un senso sarà necessario disappropriarcene per andare oltre, in un interminabile processo esplorativo, verso quei sensi ulteriori che la prima scoperta ci annuncia.



“ Ogni risultato raggiunto apre all'artista l visione di ciò che non è stato ancora raggiunto» ha detto Fiedler.

Se ora, oggi, dicendo, dò vita al personaggio che mi è toccato in sorte, o se lo spettacolo ha oggi trovato questa forma è solo perché è sempre in gestazione un nuovo e più vero dire, una diversa rappresentazione,

Ma è possibile ancora oggi credere così tanto nella Parola che è origine e sostanza dell'ascolto? Ascoltamo Theodor Adorno: «Gli ascoltatori sono ormai incapaci di un ascolto concentrato e si abbandonano come rassegnati a ciò che scorre sopra di loro, La musica viene percepita come uno sfondo sonoro; se nessuno è più in grado di parlare realmente nessuno è nemmeno in grado di ascoltare». Ascoltiamo il poeta Hugh Auden: «I lettori hanno imparato a consumare anche la migliore narrativa come se fosse minestra in scatola, così come hanno imparato a degradare la musica più grande a semplice sottofondo per lo studio o la conversazione. .».



«Dici. Che dici? Sterili minimi strìdi

còlti qua e là fra gli infiniti

entro un secchiello di sassi

che un bimbo su un greto di millenni

sceglie (come viene) fra milioni...

Estremi rantoli,

pietosi germogli non fioriti,

promesse escluse,

lacci lisi, forme sfiancate,

ritagli, scampo! i, rottami,

gretole, penne» ossicini.

rimasugli, briciole di sanie, di carie,

esche, cenni, carnicci...)2





Ci dice la voce di poeta del nostro stesso Maestro, Orazio Costa, che ci ha educato nel culto della parola viva.... E non viviamo forse in città assordate dal rullo continuo dei tam-tam del villaggio-globale, dove la morte stessa non è più sienzio ma urlo insensato? Eppure Roland Bharthes, con nitida e spietata lucidità, afferma che «l'ascolto parla», nascosto chissà in quali recessi circola ancora per disgregare la rete rigida dei ruoli di parola tradizionali, e arriva a dire: «Non è possibile immaginare una società libera, se si accetta che in essa siano mantenuti gli antichi luoghi d'ascolto: quelli del credente, del discepolo, del paziente»3.

Bisogna ancora dunque e sempre demolire, possiamo solo lasciare avanzare il deserto?

No, dobbiamo piuttosto tornare alla parola che intima; ritrovare la forza di rottura della parola che brucia con ardore i luoghi comuni, le stanche convenzioni, la lettera morta, e ascoltare la voce profetica di Franz Rosenweig che denuncia come falsi i fascinosi versi del Faust di Goethe:



«II sentire è tutto

il nome è soltanto un suono, un fumo

una nebbia che vela lo splendore del cielo»



Dobbiamo tornare a farci discepoli del «dito puntato del nome».

«Il nome non è rumore e fumo ma parola e fuoco... dove la parola viene udita là è finita con il tacere, con il mutismo, e insieme col clamore, il grido, il verso animale. E dove il fuoco brucia non c'è freddo, non c'è oscurità. Tutto questo c'è ancora, certo, ma solo dove la parola e il fuoco non sono ancora penetrati. Ma alla parola non sono stabiliti confini, la parola risuona attraverso il tempo, dì bocca in bocca, e il fuoco si espande nello spazio» 4.

Il nome, dunque, non è mai confuso sentimento e neppure può essere ridotto a semplice significante, indizio dell'inconscio, da scrutare con sospetto, senza mai consentire che il significato emerga all'ascolto, come vorrebbe certa psicoanalisi; perché è per natura sua un suono, cioè un avvenimento, un fatto fisico, un'onda penetrante, una energia che modifica comunque la realtà, un fuoco dunque alimentato dal soffio dello spirito di cui, respirando., viviamo.

Ascolto e parola sono le emergenze dell'eterno dialogo che ci costituisce, di cui siamo tessuti: « Il fatto è che il dialogo, se è veramente apertura all'altro se è buona volontà e non una certa qual molle attesa, ma attiva volontà di ricevere, di ascoltare, di cercare di uscire da se stesso per ammettere l'universo dell'altro, non può spingersi fino alle estreme conseguenze senza essere l'immolazione di uno dei partner, senza cioè rinnegarsi in quanto dialogo... D'altra parte la dissim­metria della rinuncia è una negazione del dialogo.... Allora il vero dialogo non sarebbe soltanto lo scambio tra due coscienze, la comunicazione di due universi mentali, ma la costruzione di un mondo nuovo attraverso l'immolazione di due partner pronti ad aprirsi alla creazione» (Raymond Carpentier in Les hommes devont l' echec, Parigi. 1968),

II teatro quando è vissuto come proteica volontà di mutazione, come cammino di crescita di una identità che rigioca i suoi confini, ci riconsegna umiliati alla parola e allora il farsi discepolo vuol dire imparare ad obbedire, alla lettera ob-audire. ad agire così come le parole ci invitano, ad attuare in conseguenza dell'ascolto, perché se il nostro destino è la parola, un semplice flatus vocis, «l'uomo è pur sempre il linguaggio di Dio» .





1 Citato in H. H. von Balthasar, Teodrammatica, Milano, ed, Jaca Book, 1980, p. 604.

2 O. Costa Giovangigli, Luna dì Casa, Brescia, Vallecchi. 1992, pp. 127-28

3 R. Barthes, L'ovvio e l'ottuso, Torino, Einaudi, 1985. p. 250.

4 F. Rosenzweig, La stella della redenzione. Casale Monferrato, ed. Marietti. 1985.

5 R Menahem-Mendel dì vitebsk, in E. WIESEL. Celebrazione Hassidica, Milano, Spirali edizioni, p. 81.



DOCUMENTI gentilmente concessi da Pino Manzari

LAUDI MEDIEVALI DAL "PICCOLO" DI MILANO



Rivive nel cantiere il "Mistero "cristiano

Il regista Orazio Costa ci propone una sacra rappresentazione in un ambiente di lavoro dove la fatica dell'uomo s'incontra con i suoi più alti ideali spirituali E' l'indicazione di un programma per il teatro contemporaneo?

Milano, febbraio II « Piccolo teatro della Città di Milano » ha vinto la battaglia artistica forse più difficile e impegnativa della sua lunga, felice, innovatrice e discussa attività teatrale. Lo diciamo subito, senza preamboli, con schiettezza, anche perché non credevamo, fino a sipario calato, che la proposta di rappresentare al teatro Lirico il « Mistero della natività, passione e resurrezione di Nostro Signore » (laudi medievali dei secoli XIII e XIV riunite ed elaborate da Silvio D'Amico per la regìa di Grazio Costa) riuscisse a superare gli scogli, i pericoli, le stesse ingenuità del testo, il didatticismo, la visione idillica della storia sacra come la psicologia dei personaggi sacri.

Lo stesso D'Amico (il « Piccolo », riproponendo il « Mistero », intende recare un contrbuto sincero e riconoscente al Maestro nel decimo anniversario della morte ) poneva nel 1937 un interrogativo cui dobbiamo, oggi più di ieri, dare una risposta. Diceva, dunque, D'Amico: potrà una rappresentazione di questo genere essere soltanto una curiosità storica? Soltanto un tentativo di riavvicinare, con i nostri mezzi, alla nostra sensibilità una pura e trepida poesia medioevale? o, per caso--da un tale - riavvicinamento. riscopriremo che la 'sostanza di questo « mistero » non certo per merito del suo compilatore e nemmeno dei suoi candidi eppur sanguigni poeti, ma dall'afflato evangelico e popolare che lo pervade, non è medioevale, non è legato ad un determinato tempo, ma è sempre attuale perché eterna?

Dal 1937 ad oggi la società italiana è, almeno nelle apparenze, irriconoscibile.

Ci troviamo di fronte da un lato a conquiste nuove, o ritenute tali, e dall'altro a un riesame totale e spesso polemico di sistemi, concezioni, attitudini e atteggiamenti morali che erano ritenuti robustamente ancorati a

polemiche proponendo un testo che supera e trascende i limiti del tempo, offrendo immagini immediate e incisive in una libera interpretazione pur nel solco della scrittura, il diffuso sentimento di un evangelismo fervido, caldo, non esornativo, drammatico, di illuminante ispirazione sociale e collettiva hanno preparato il terreno per arriivare ad una comprensione che si è trasformata in un fervido consenso.

La curiosità storica, di cui D'Amico temeva, cede di fronte allo spirita e alla luce poetica che il « Mistero » ha suscitato. La pura e trepida poesia medioevale.



Il misticismo di Jacopone, l'anima popolare del Trecento sono diventate, nella regia di Orazio Costa, ragione di intimo tormento e di drammaticità, tanto appassionato, fede salda e vivente, angoscia e gioia che la stessa fede promuove e suscita, senza distruggere, intellettualizzando i personaggi, il nucleo di poesia pura.

Costa ha evitato la rievocazione di un mondo evangelico, sia pure in chiave stilistica goticizzante e giottesca, come quella sacralità e misteriosità che oggi potrebbero sembrare gratuiti. Ed è stata una intuizione geniale quella di aver proposto l'azione scenica in un grande cantiere di una cattedrale che sta per essere ultimata. E' esatto quello ' che Costa dice e cioè che nel miracolo collettivo della cattedrale tutta una società creò il tempio della propria fede, tutte le arti collaborarono in unità di intenti, mentre fuori della chiesa i poeti creavano queste laudi, da poco staccatesi dalla funzione liturgica vera e propria. In una pausa di lavoro un gruppo di bambini sollecita l'esecuzione di alcune di quelle laudi che nei giorni festivi hanno vosto rappresentare sulle piazze
Accade allora che tutti i componenti di questo grande organismo di lavoro siano parrtecipi consapevoli di alcune di queste laudi, espressione della loro spiritualità e quindi in grado di passare da un personaggio all'altro, di recitare le parti corali, di seguire l'evoluzione dei personaggi, di improvvisare in una maniera adatta all'ambiente che di colpo era venuto a pre­starsi loro con una funzione allusiva di particolare efficacia. Costruire la cattedrale, il dramma e la loro personale spiritualità diventa cosi un unico atto. La prima parte del « Mistero » vede così — come in un grande affresco — muoversi la sacra rappresentazione in un incontro, in un dialogo immediato, su uno sfondo corale di commento, dellle stesse persone che lavorano alla cattedrale. E' il momento trepido dell'annunciazione, delll'arrivo di Giuseppe e Maria a Betlemme, della nascita, del giubilo, della fuga in Egitto, della imprecazione contro Erode. Forrse nel succedersi movimentato delle scene, nello scambio rapido e improvviso delle parti, nel conntinuo movimento improvvisato per dare all'azione un carattere incalzante e immediato, nell'irrrompere fresco dei bimbi che sollecitano la rappresentazione, nei passaggi così serrati come per voler eliminare ogni carattere di staticità, di solennità che potevano sconfinare in una for­ma da oratorio, è sembrato, in taluni momenti, che il nucleo centrale dell'azione drammatica fosse come un po' sommerso, attenuato e ridimensionato dal movimento corale dei personaggii, degli attori, degli spettatori. Nel secondo tempo, invece, (e probabilmente per la natura stessa dei testi) si è trovato maggior equilibrio. Cristo e Maria dominano la scena e l'unità stilistica appare in tutta la sua efficacia e dimensione senza mai accedere né allo spettacolare, all'oratoria, a necessità pedagogiche e didascaliche, o al compia­cimento; ma con un senso di misura, una verità che fanno di questo spettacolo una visione filtrata della storia evangelica.

Se il « Mistero » ha avuto successo e ha riscaldato i nostri cuori, se esso è vivo, se la sua drammaticità e spiritualità a­paiono ancora immediati e veri, lo dobbiamo in gran parte alla impegnata, originale, fresca regia di Costa che con questo lavoro ha firmato l'opera sua migliore ed esemplare.

Uno spettacolo, lo ripetiamo volentieri, che lascerà un segno nella storia del « Piccolo » e che dimostrerà come i valori spiri­tuali, se riportati a noi in una luce di amore e di caldo affetto, possono attestarsi saldamente nelle nostre coscienze ed essere rilevanti ed importanti sul pia­no della cultura, del teatro e del costume.
LUIGI LAMPREDI ( IL POPOLO del lunedì-Lunedì 15 febbraio 1965).



LA COMMEDIA - Episodi e personaggi del poema dantesco a cura di Grazio Costa Giovangigli - Prima rappresentazione al Lirico di Milano attuata dal Teatro Roma) - Regia: Grazio Costa Giovangigli - Costumi: Maria De Matteis - Musiche: Roman Vlad - Interpreti principali: Roberto Herlitzka (Dante), Gabriele Polverosi (Virgilio), Rita di Lernia (Beatrice), Francesca Fabbi (Maria), Maddalena Gillia (Lucia), Paila Pavese (Francesca), Silvio Ansclmo (Farinata), Sandro Ninchi (Ulisse), Massimo Foschi (Conte Ugolino), Enzo Consoli (Casella), Elena Vicini (Pia de'Tolomci), Ettore Toscano (Stazio), Chiara Cajoli (Lia), Pino Manzari (Cacciaguida), Arnaldo Bellofiore (S. Bernardo) - Lettori: M. Kalamera (Inferno), V. Cipolla (Purgatorio), S. Ninchi (Paradiso) -

'

Dopo la « popolarizzazione » dell'Assassinio nella cattedrale di Eliot, il Teatro Romeo ha continuato nel suo lodevole intento di avvicinare il gran pubblico alla grande poesia, questa volta presentando in una sola serata la Commedia di Dante sotto forma di tentativo scenico, o come ha detto Grazio Costa Giovangigli che da vent'anni aspettava di realizzarlo, di una « proposta di spettacolo » che però già si distingue per la serietà di studio e l'impegno ardimentoso del suo realizzatore.

Dando alla rappresentazione della Commedia il significato di una proposta, Costa ha già avvertito spettatore e critici di quali sono i limiti. Nessuno quindi si aspettasse uno spettacolo finito nel vero senso della parola, ma semplicemente una prova, uno studio preparatorio per una serie di spettacoli danteschi; intanto si capisse da questo primo abbozzo gli sviluppi da dare al tentativo, se ben riuscito, i suggerimenti, gli ammaestramenti da ritenere o gli ostacoli che impedissero una maggiore comprensione da parte del pubblico.

Cadono quindi di fronte a questa franca e leale dichiarazione del Costa — soltanto una proposta di spettacolo — tutte le obiezioni che si riferiscono ai movimenti di masse ridotti all'essenziale, alle immissioni musicali ristrette a un solo organo e coro, alle movenze di danza appena accennate; come pure risultano inopportune o premature le facili critiche irrisorie, relative, per esempio, alla recitazione a volte troppo rapida.

La questione vera e propria che per Costa ha importanza, la risposta da dare alla sua proposta, è assai impegnativa e sostanziale per gli aspetti futuri di quest'opera: se valga la pena di continuare per questa strada; se finora appaia che sia stata espressa la portata drammaturgica della Commedia, come rivelazione specialmente della ispirazione religiosa che anima tutto il poema; infine, se l'esperimento scenico — con la presenza fisica di Dante e quindi con l'evidenza della sua condizione umana — estrinsechi le sofferte esperienze di Dante, fragile creatura umana, uomo sgomento dinanzi alle rappresentazioni del male, atterrito dalle colpe proprie che vede eternate nei peccatori condannati, ma anche mistico illuminato dallo Spirito che nell'esame e confessione dei traviamenti degli altri uomini e propri, dagli incontri con le anime purganti avviato a meditare su concretezza di bene che sospinga alla salvezza, vive « il dramma del poeta e della poesia, cioè del purificarsi attraverso il creare, del costruire derivante dall'aver veduto cento e mille altri drammi ».

Sin da questo primo esperimento scenico si può già intravedere che Dante, creatore di luce spirituale nel suo iter per Pirdua salita dal tenebroso smarrimento al congiungimento con Dio, risalta sulla scena più evidente, come uomo, Dante vivo, in contatto carnale, che non dalla lettura della Commedia ove, secondo i modelli dell'epica classica vien dal lettore piuttosto raffigurato come supcriore poeta, alto predicatore o, pur lontano da lui, profeta biblico qual era Isaia.

Costa ha ben inteso che la teatralità dantesca non è limitata a quei singoli episodi, specialmente dell' Inferno, che una critica d'esaltazione romantica ha additato ai solisti della dizione come prove di bravura; m:i la vera drammaticità sta racchiusa in quella elevazione spirituale di Dante che dalla contemplazione dell'orrida, sordida e disgustosa staticità del peccato nell'Inferno, da quell'aspetto necessario e negativo vien sospinto verso una ricerca di bellezza.

L'educazione morale che Dante intraprese nella Commedia per « indurre gli uomini a scienza e virtù» offre indiscussa materia di drammaticità teatrale con la sua scala ordinata di emozioni umane affluite in Dante, testimone e partecipe di esse, nell'ascesa completa dal negativo dell' Inferno al positivo del Paradiso. La rpettacolarità vien data da quello strutturale contrasto tra la bestialità della prima cantica, l'umanità della seconda, la spiritualità della terza, ed evidenzia in Dante la sofferenza (solo sofferenza nell''Inferno) e la gioia (solo gioia nel Paradiso) e nella salita da cantica a cantica il tremor di condanne senza purificazione né salvezza, la gaudiosa pena dell'espiazione del peccato come un debito continuamente scontato da « gente secura... di veder l'alto lume », l'estasi per la carità che è unione con l'oggetto amato.

Adeguata a questa struttura emotiva, la struttura dell'azione più convincente è parsa a Costa quella — approssimata alla forma di un grande ' mistero » — di Una rappresentazione continua (e quindi, d'ogni cantica, non soltanto alcuni canti, anche se per esteso, e nemmeno una scelta d'episodi senza legami fra loro), di una successione di episodi che conservassero l'unità d'azione propria della Commedia: a renderla, Costa ha tentato la soluzione scenica di un lettore che, dal pulpito di una chiesa (scena unica per le tre cantiche), a modo di narratage cinematografico, recita i brani del Poema aventi funzione di connessione tra i fatti più rilevanti, evoca la figurazione del testo, senza aggiungere parola che non sia di Dante.

Coordinando l'ordine delle emozioni dalle più sensibili alle più intellettuali e spirituali, Costa ha inserito nel racconto teatrale gli episodi, e i personaggi riflettentisi in Dante, che meglio offrissero concretezza alla immaginazione, che indicassero una visione, costretto perciò a tagliare — anche per restar nei limiti di tempo della recita — tutti i passi d'esposizione filosofica, in special modo della filosofia di Aristotele. Ma per quanto riguarda il poter vedere e percepire il più profondo significato racchiuso nelle parole, la scelta degli episodi è stata accurata, esatta: l'unica mancanza notevole è parsa quella di san Bonavcntura esaltante « l'amoroso drudo-della fede cristiana », san Domenico, dopo l'esaltazione di san Francesco per bocca di san Tomaso.

Per risolvere in spettacolo l'intima drammaticità della Commedia, Costa si è valso della luce che doveva « farsi e scivolare, condensarsi e smorzarsi », e in aggiunta all'apporto mimico e in unione col suono, punteggiare e sottolineare, e così bene è stata adoprata la luce che, quando l'azione si trasferiva nel palco sopraelevato dietro un velo traslucido, conferiva alle composizioni, pur concrete e plastiche, aerea levità e risultati coloristici come in una grandiosa pala d'altare di pittore Veneto, o girando attorno allo schema a piramide di talune coreografie, suggeriva un movimento elicoidale di gradevolissimo effetto, e suggestioni di prospettiva aerea; altrove i toni fluidi e diffusi, i richiami d'ombra, sommergevano le atmosfere, smussavano i contorni, escludevano la definizione delle linee.

Nessun commento:

Posta un commento