mercoledì 30 marzo 2011

LUCA RONCONI-PER COSTA

Luca Ronconi è stato allievo  di Orazio Costa  all'Accademia Nazionale d'arte drammatica. Il documento è stato gentilmente concesso da pubblicazione  ETI informa- speciale Orazio Costa -novembre 2000, a pochi mesi dalla scomparsa.
Segue un intervento- lezione del novembre 2010 di Luca Ronconi al Teatro Era- Grotowski di Pontedera da me trascritto.


VERSO ORAZIO
Sia per mancanza di tempo e di abitudine, sia soprattutto per una certa qual sfiducia nelle mie qualità di scrittore, da  sempre mi riesce diffìcile mettere su  carta i miei pensieri: per lo più - e certo se così non fosse nella mia vita non mi sarei trovato a fare il regista - preferisco ricorrere al teatro per parlare di chi o di quanto mi sta a cuore; quando però dall'Ente Teatrale Italiano mi è arrivato l'invito a stendere un breve contributo in ricordo di Orazio Costa a poche settimane dalla sua morte, vincendo d'acchito tutte le mie più profonde remore nei confronti dell'esercizio diretto della scrittura, ho subito accettato la proposta nonostante la circostanza fosse quanto mai "a rischio": non di rado infatti, specie in un "autore" inesperto quale io sono, al di là di ogni buona intenzione la sincera volontà di dar voce al dolore per la scomparsa di una persona cui si era legati, mantenendone vivo il ricordo, finisce, fissandosi in discorso, con l'impantanarsi tra le secche delle facili frasi fatte - non per nulla, ma è già questo un luogo fin troppo comune, si sa che spesso di fonte all'enormità e all'eccezionaiità di un evento come la morte, l'unico possibile commento è il silenzio. Fatti tutti questi preamboli, perché dunque - e io per primo me lo sono chiesto - non ho esitato un istante nel rispondere alla sollecitazione del professor Tian? La prima ovvia risposta è che per chiunque in Italia ami il teatro, sia come "fruitore" sia come "operatore", rendere omaggio a Orazio Costa all'indomani della sua scomparsa, era sicuramente un atto dovuto. Non sono uno storico della scena e non spetta quindi a me render conto in dettaglio dei debiti che buona parte dei protagonisti del teatro italiano del dopoguerra hanno contratto nei confronti di Costa, ma credo sia sotto gli occhi di tutti l'importanza dell'apporto che Costa ha dato alla crescita della civiltà teatrale italiana nella seconda metà del secolo che si è appena concluso. Compagno di strada di Silvio d'Amico e allievo assistente di Jacques Copeau, promotore e protagonista numero della "rivoluzione" teatrale, che a partire dai tardi anni Trenta segna l'avvento sui palcoscenici patri della figura del "regista" - parola e figura nei confronti della quale egli, d'altra parte, conservò un'ironica "distanza" per tutta la vita -, pedagogo di non comune carisma impegnato con rara abnegazione nelle più diverse avventure didattiche - dal pluridecennale insegnamento in Accademia a quello presso il Centro Sperimentale di Cinematografìa, dalla creazione del Centro di Avviamento all'Espressione di Firenze all'apertura della Scuola di Teatro di Bari , maestro a vario titolo di quasi tutti i più acclamati interpreti della nostra scena (e non solo), da Tino Buazzelli a Nino Manfredi, da Paolo Panelli a Glauco Mauri, da Monica Vitti a Rossella Falk, da Umberto Orsini a Giammaria Volonté, da Gianrico Tedeschi a Giancarlo Sbragia o a Gabriele Lavia - per non citare che alcuni nomi a caso dallo sterminato registro dei suoi allievi , Costa ha lasciato una traccia indelebile nel panorama teatrale italiano degli ultimi decenni. Probabilmente considerazioni di questo genere già sarebbero sufficienti a spiegare in assoluto il desiderio, o forse meglio la necessità di ricordare il lungo viaggio attraverso la scena di Costa, ma non bastano a far luce sui motivi più veri che mi hanno spinto a scrivere queste righe.

Abbandonando il punto di vista generale a vantaggio di una prospettiva più personale, devo subito cominciare con l'ammettere che per primo appartengo alla gran massa degli uomini di teatro italiani che non possono rinnegare  i propri obblighi di riconoscenza nei   confronti di questo grande Maestro. Nel biennio 1951-52, 52-53 ebbi Costa come insegnante di recitazione in Accademia e in quegli anni mi trovai pure a seguire le sue lezioni di regia; subito dopo il mio debutto come attore sotto la guida di Squarzina in Tre quarti di luna nel 1953, proprio diretto da Grazio Costa mi trovai poi a cimentarmi nella mia seconda prova d'attore in una messa in scena di Candida di George Bernard Shaw prodotta dal Teatro Stabile di Roma nel 1954. Il successivo appuntamento professionale - ma questa volta a ruoli invertiti - col mio ex insegnante risale a una ventina d'anni dopo la messa in scena shawiana appena ricordata, quando volli cioè Orazio come attore nella versione televisiva di Orlando furioso. Al di là delle profonde differenze di gusto e di orientamento culturale che ci hanno separati, non posso e non voglio nascondere che Costa ha ricoperto un ruolo determinante nella mia formazione teatrale. Certo non mi sono mai riconosciuto nel metodo Costa, ma da Costa ho imparato la necessità di fondare su basi etiche (più ancora che mistiche) il rapporto con la scena, il piacere di analizzare le questioni interpretative risolvendole di volta in volta secondo le loro irriducibili specificità nell'ambito di una robusta "quadratura" intellettuale e, pur se forse sulla base di diversi presupposti estetici, con Costa ho condiviso la passione per la parola-in-scena. In fondo alle origini della mia visione del teatro come momento di conoscenza c'è anche l'idea costiana del teatro come "misura dello spirito", alle radici del mio approccio empirico all'esperienza registica ci sono i ricordi di certe lezioni di Costa e di certi suoi suggerimenti su come "scartocciare" - mi si passi il termine -logicamente i problemi di senso; forse il mio rispetto quasi maniacale del testo non poggia sulla fede nel logos, ma sicuramente la cura attenta che cerco di dedicare alla restituzione teatrale della parola non è troppo lontana dal rigore con cui Costa "leggeva in scena" Ibsen o Molière, Goldoni o Alfieri o i classici del teatro religioso medioevale. È proprio per questa via, ossia attraverso un aperto riconoscimento di quanto ho appreso da Orazio Costa, che posso arrivare a parlare del senso autentico di queste mie frammentarie note. A fronte della sincera ammissione dell'influenza che Costa ha avuto sul mio percorso teatrale, influenza che a dire il vero non ho mai voluto negare o celare, c'è da parte mia un'acuta percezione dell'ingratitudine che, di fatto, ho riservato, e forse in questo non sono ahimè stato il solo, a questo grande uomo di teatro. Sia chiaro che chiamando in causa la società teatrale italiana - o quanto meno parte di essa - nel mio discorso non intendo sottrarmi a quelle che sono e so essere le mie personali responsabilità, né, men che meno, voglio accusare qualcuno in particolare, ma sforzandomi di essere il più possibile lucido vorrei cercare di rendere il giusto riconoscimento a Costa, tentando, per quanto possibile, di trarre anche da un avvenimento doloroso come la sua scomparsa un insegnamento o per lo meno un motivo di riflessione. Credo sia fuor di dubbio che, fatte alcune debite eccezioni, il teatro italiano, di cui torno a dire io per primo faccio parte, si sia mostrato nei fatti, anche se certo non per deliberata cattiva intenzione, irriconoscente verso Grazio Costa, che proprio al teatro italiano ha consacrato l'intera esistenza: l'isolamento in cui non si può negare Costa abbia vissuto negli ultimi anni della sua vita è lì a dimostrarlo, costringendoci a prendere posizione su quale sia l'essenza dei nostri costumi teatrali. Sicuramente Costa per primo, con quel suo inconfondibile e un po' aristocratico distacco ha contribuito in un certo qual modo a creare la situazione che ho appena denunciato, ma lungi dall'essere una giustificazione dell'operato di chi, come me, non ha saputo o voluto dimostrare appieno la propria gratitudine ad un tale maestro, proprio quest'ultima osservazione ci fornisce nuovi soggetti di meditazione. In una società teatrale dominata da una certa "scioltezza", da una certa affettazione di cordialità, i modi severi e austeri di Costa, certo talvolta fors'anche un po' pedanti, ma sempre rispettosi e dettati da un solidissimo codice morale, non sono stati mai più di tanto accettati e capiti. Ma una società teatrale di questo tipo può darsi una "tradizione"? E ancora: può esistere una vera civiltà teatrale in mancanza di una tradizione? E in ultimo: Costa non ha forse cercato per tutta la sua vita di fondare a suo modo proprio una "tradizione"? Ma allora che risultati hanno prodotto i suoi sforzi? Certo questi interrogativi non possono non lasciare in chi li pone una profonda amarezza, ma in questa sorda inquietudine, in questa insoddisfazione che essi provocano, sta la loro necessità, la loro urgenza. Ed è anche perché ci ha aiutato a porci simili domande che dobbiamo ringraziare Orazio Costa, questo maestro un po' distante ma sempre generoso, che con la signorile eleganza e la discrezione che gli sono state proprie per l'intera vita, ci ha da poco lasciati per sempre, trasmettendoci come sua preziosa eredità, più ancora che un modello di teatro, un esempio di vita.



Pontedera-Teatro Era GROTOWSKI -Novembre 2010
LEZIONE DI LUCA RONCONI
dal blog http://www.palco.it/ di Renzia D'Incà


Sabato scorso, in un luogo di impegno, di risorse intellettuali e creative internazionali, di ipotesi di rigenerazione, anche per trasmissione di saperi ed esperienze- si materializza il regista cult, l'europeo Luca Ronconi. Di fatto Luca, è l'unico regista che abbia, da decenni, fama della nostra origine italiana, all'estero. Almeno in campo teatrale.



E' presentato da Federico Tiezzi. Che lo introduce citando il Forster di Casa Howard- rimando nel rimando còlto dal collega Gianfranco Capitta, anche coordinatore della serata- "only connected". Only connected? di che? bè, ovvio agli addetti ai lavori:di architettura, musica, danza..
Nel 1976-78, a Prato, Luca Ronconi crea il Laboratorio del Fabbricone -in assoluta e totale libertà espressiva che- dice-segnò l'inizio per la scena, di una rielaborazione dopo Copeau, con la Sant'Uliva e dopo gli esperimenti fiorentini di quel genio di Gordon Craig, con il The Mask.
Dice Capitta- Ronconi ha fatto di Prato una capitale del teatro d'avanguardia. Inventore e protagonista insieme, Ronconi negli anni Settanta già lavorava a Vienna come a Zurigo, riconosciutocome maestro di teatro internazionale. In Italia aveva avuto la sua consacrazione con Orlando furioso, ma dopo la chiusura del laboratorio a Prato aveva lasciato il Belpaese per altri lidi.
Ronconi-continua Capitta- arriva in Toscana e fonda un progetto pedagogico unico e straordinario facendo di Prato una capitale europea di teatro.
 L'idea- ribatte Luca- non è nata da me ma dalla città di Prato. Io allora ero direttore artistico della Biennale di Venezia dove avevo portato Grotowski, Bob Wilson(una esperienza fondamentale del secolo passato, anche per il teatro musicale, Mnukine, Peter Brook...e ho scatenato molti mugugni.

-Eri stato insegnante in Accademia Silvio D'Amico negli anni Settanta.
-Sì, venivo da Roma.La sala del Metastasio raccoglieva molto pubblico della Pergola (alluvionata nel '66).
-Luca, tu non amavi gli attori che si distraevano-a Roma molti facevano anche telvisione, tu hai anche insegnato in Accademia Drammatica dopo il diploma.
-Per me è essenziale la disciplina: a Prato gli attori facevano solo il lavoro di Laboratorio. Io volevo allora e tuttora voglio pensare ad un attore come elemento fondamentale della drammaturgia. Un attore deve saper leggere un testo. Un attore è un co-autore. Puntare al lavoro di conoscenza anche nell'errore. Marisa Fabbri è stata un esempio molto ben riuscito del mio Laboratorio. A Prato abbiamo avuto maestri come Luigi Nono, Umberto Eco,Gae Aulenti, anche se alcuni ci hanno rotto le scatole con "l'interdisciplinarietà"
-Il teatro è una categoria o una pratica?
-L'interdisciplinarietà allora dava fastidio, c'era chi si chiedeva:"che cosa ci può essere di profondamente teatrale in altre arti?". Di ciò se ne occupava allora Dacia Maraini, che aveva fondato a Prato il laboratorio sul Linguaggio, cioè come usare l'esperienza teatrale come una possibile forma di conoscenza. Noi specificavamo il senso del fare laboratorio nel senso di un "luogo dove l'artigiano esercita il suo lavoro". Niente di teorico, quindi. Lavorare su un testo e moltiplicare le possibili letture è stato un must.
- In quegli anni fortunati in cui erancora possibile capire( l'interferenza politica poi è diventata più forte) fino a che punto si poteva spingere il teatro rispetto agli spettatori..
-E' stato un periodo felice perchè non era ancora codificato. E' stato una cosa nuova perchè era avvertito come necessario. Come non ancora nominato.
I rapporti con la città non furono sempre idilliaci. C'era un equivoco di fondo. Io sapevo cosa potevo fare. Loro, i politici, avrebbero desiderato più un servizio che un valore.Ci hanno accusato di sperpero di pubblico denaro. Era allora in corso un conflitto fra PSI e PCI. Noi prendevamo il minimo sindacali di allora (oltre che essere obbligati alla residenza). Veniva finanziata una attività teatrale che faceva pochissime repliche e non era un prodotto commerciale. Per qualche anno Prato è stata messa accanto alle più importanti città teatrali europee di teatro...
Attualmente dirigo la scuola del Piccolo a Milano anche se non sono un didatta. Non ho un mio metodo. L'obiettivo che mi prefiggo è di lavorare per far stare bene gli attori. Il nostro lavoro può essere salvifico o patogeno. Mi spiego: l'Accademia di Roma accoglie ogni anno 30-35 ventenni che decidono di voler fare gli attori. A Prato non è stato così. Erano tutti attori già formati. Marisa Fabbri è stata una attrice strepitosa!
Oggi si stanno molto diversificando le categorie attoriali. In Accademia c'era un modo solo, quello di Orazio Costa o Sergio Tofano. Oggi non è più così. Ci sono attori in formazione che vogliono fare TV. Altri cinema.
-Una ricetta per attori e registi, oggi?
- Chiedersi quale futuro teatrale voglio? Elaborare possibilità future e non applicare codici già esauriti. Inventare qualcosa di necessario.



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