venerdì 28 gennaio 2011

RE NUDO di ALESSANDRO GARZELLA

martedì 20 luglio 2010


Re Nudo, fra visionarietà e apocalisse



Re Nudo- studio per la messa in scena di una favola sull'inganno-Cascina La Città del Teatro



di renzia d’incà





Non scomoderò né Guy Debord, né Michel Foucault o il Derrida, maestri di pensiero sulla fine del moderno e fautori di quel movimento che con Debord sfociò nel “situazionismo” alla fine degli anni Sessanta, ma Umberto Eco con la sua lucida indagine sul sistema della comunicazione di massa è senz'altro una delle fonti di riferimento di questo nuovo complesso allestimento di "Re Nudo", liberamente ispirato all'Andersen de "I vestiti nuovi dell'imperatore" e a "1984" di George Orwell. Il lavoro è scritto e diretto da Alessandro Garzella. Non so se il regista abbia anche attinto dal bel video della citatissima Lorella Zanardo "Il corpo delle donne" ma molto si trova sulla mercificazione - reificazione del corpo femminile anche nel pensiero che sta dietro la messa in scena di questo spettcolo.

A me è sembrato che Garzella, direttore artistico di un Teatro quale La Città del Teatro di Cascina, che non a caso ha presentato per la prima volta la sua fatica dentro il festival Metamorfosi- Teatro politico (Cascina 2-5 giugno)stia, e come sempre, provando a provocare, insidiare, lordare, anche sì, quel mondo piccolo-borghese, di benpensanti ma anche di certe anime belle della sinistra, con lo scopo di scuotere le coscienze instupidite dal bombardamento mediatico che da decenni logora la capacità critica.Mi è sembrato cioè uno spettacolo che vuole arrivare al pubblico come un gancio al mento o una pugnalata nella pancia.

E'una messinscena che si presenta come una macchina complessa, composita e disarticolata, si fa fatica a seguirne una traccia e una volta convinti di averla trovata ci si perde di nuovo. Come nell'operazione di zapping quando si saltella da un canale all'altro, da un frames a un altro, la realtà e il suo senso sono sbriciolate da parole svuotate di significato, una sorta di marmellata sonora e visiva in cui balbettii e strepiti si succedono sullo sfondo di un bombardamento linguistico lessicale visivo e sonoro straniante e azzerante la capacità di lettura.

C'é una scatola spazio-scenico (organica al potere?) che è la realtà-mondo col suo Re, c'è un velo a dividere le due compagini di pubblico spettatore, di qua e di là, dentro si assiste all'agitarsi meccanico quasi schizzato di figurette–manichini che mi hanno fatto pensare a Kantor (maestro e mentore del regista), azionati da voci e video-TV, tonnellate di immagini sono proiettate sullo sfondo, in prevalenza scene di guerra, torture, eventi legati alle vicende di dittature del secolo passato.

Sulla linea di altri lavori più recenti, abbandonando una linea che ricorreva di più al satirico-grottesco e acquistando in cupezza e forse pessimismo cosmico, il regista e autore della drammaturgia(che tra l'altro è anche assai noto per il lavoro che da molti anni svolge col disagio psichiatrico) nel suo Re Nudo invia un delirante assemblaggio di materiali sia drammaturgici che visivi e sceglie di raccontarlo attraverso le immagini dell'Istituto Luce, il bianco-nero sullo sfondo dei nazismi Novecenteschi come metafora di ciò che avviene nella contemporaneità all'interno della scatola dove le azioni fisiche delle marionette-attori e loro non-dialoghi riportano al ripugnante eppure imperante sistema massmediatico della TV e dei suoi protagonisti, eroi del proprio quarto d'ora di celebrità.

Apparentemente non è facile ricostruire la trama drammaturgica. Ma alla fine questo conta poco. Sono più forti le impressioni visive e sonore, più rumori che suoni più azioni confuse corali o singole che fanno dell'operazione registica sugli attori un effetto di spiazzamento. Tutto è come disarticolato, franto, intermittente

Dentro la gabbia si assiste a una riproposizione- quasi sempre odiosa, di giovani donne e uomini funzionali ad esibirsi come corpi, come icone inneggianti al Totem- Re, cortigiani e cortigiane del potente.

Re Nudo è un urlo di dolore contro la società dello spettacolo.

Fra l’installazione visiva e la esacerbata critica politico-sociale. Fra visionarietà e apocalisse. Con gli attori Fabrizio Cassanelli, Irene Catuogno, Ivano Liberati, Francesca Mainetti, Chiara Pistoia, Francesca Pompeo, Marco Selmi, Anna Teotti.



Renzia D’Incà



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domenica 16 gennaio 2011

Don Giovanni- Sacchi di sabbia



Cascina. La città del teatro. Festival  Metamorfosi -giugno 2010

Spregiudicato, irriverente, divertente e anche molto sorprendente questo nuovo lavoro dei Sacchi di Sabbia diretto da Giovanni Guerrieri   ispirato  al capolavoro mozartianoLa partitura musicale viene"eseguita" da un coro di bambini vestito in abiti  stile ventennio attraverso una sorta di rielaborazione-imitazione vocale delle principali arie, seguendone anche le tracce sonore e paralinguistiche- insomma vi si riconosce l'opera almeno in senso generale, ma solo mediante rumori, schiocchi di labbra, lallazioni alla maniera dei poppanti in un operazione assolutamente impressionistica, apparentemente derisoria, in realtà un omaggio infantil-clawnesco come solo i piccoli sanno fare nel restiuire suoni e significanti. Si ride, ci si sorprende delle trovate, della microgestualità che accompagna lo " spartito" in esecuzione in un crescendo di coinvolgimento leggero ma insieme profondo. Il pastiche linguistico è veramente una operazione di rilettura mozartiana degno della lievità del grande compositore.
I Sacchi, che nel per il loro percorso artistico di sperimentazione specie nel comico hanno ottenuto l'UBU nel 2008, con questo lavoro si confermano come una delle formazioni più attente alla contaminazione linguistica in teatro, con attenzione al fumetto, alla letteratura, al cinema.  Il progetto di Giovanni Guerrieri è insieme a Giulia Solano, Arianna Benvenuti, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri, Matteo Pizzanelli, Federico Polacci.

ORAZIO COSTA-INEDITI DAI QUADERNI

~Una scelta dai quaderni curata dall'allievo Paolo Bussagli- festival Montalcino 1996, gentilmente concessi all'autrice. r






DUELLO AEREO (Estate 1944)

“Come due cani facevano; - e faceva azzuffare l’una all’altra le sue mani grosse, rosse di bucati, nere di patate. - Pareva scherzassero; uno é cascato giù così “. E a braccia aperte finse il movimento di chi cade all’indietro giù da un muro o da un balcone, in sogno.



(13/12/56)

Ieri, parlando con due allievi (Orlando e Amato) questa battuta sulla mimica: (per una parte già formulata, per l’altra apparsami lì per lì degna di qualche considerazione) “Mimicamente noi siamo una grande mano e i nostri organi vocali sono in grado di specchiare il tono e la forma di ogni nostro atto mimico. Il fatto più interessante é che nel nostro aspetto mimico totale abbiamo due sintesi assai diverse (che certo non possono non avere il loro corrispettivo filosofico) nella mano e nel volto.



(8/7/61)

Quando si dice ad un attore “Basta con le mani!” non si riflette o non si sa che egli sta tentando con l’immagine di uno sforzo plastico di intervenire sulla plasmabilità del suo apparato fonatorio e sulla sua fantasia plastica per ottenere un risultato di emissione modificato progressivamente dai suoi sforzi. Egli sta scolpendo! Non si direbbe a uno scultore o ad un pittore che stanno lavorando “Basta con le mani!” E’ che in questo caso non si teme che il lavoro delle mani resti legato alla definitiva manifestazione espressiva. Ma anche un attore, dopo aver “scolpito” alle prove può abbandonare la gesticolazione in tutto o in parte e ritenere di essa, o anche meglio estrarre da essa, quel che può valere al personaggio e magari, ormai in contrappunto.



(Inverno 1945)

E tutto intorno ha vita capace di guardarmi: gli occhiali posati che guardano, con le loro braccia differentemente disposte e convergenti, un qualche oggetto vicino; la lampada curva e attenta, ridente pei mille buchi del paralume, sporta su quel formicolare di vita di là dalle sue remote ombre. E un libro col mento appoggiato alla spalla d'un altro cerca di sorreggersi e di sostenere il grave peso di un piccolo libro che scivola; e un altro sdraiato sorride anch'esso con un suo becco ironico mentre un plico si morde le labbra a tacere; fuori del portachiavi si appuntano le teste caparbie delle chiavi, seppure i loro denti non fingano arguti profili su abili, incapovolgibili ventri e il lapis e la penna si accostano, si auscultano, si annusano sottili.



(1946)

Perché... se guardando queste cose le faccio vive in me, intendo che vive restino e che i loro colori, i loro spigoli cantino. Cioè non basta che io le lasci come sono e come io so che sono, ma che le renda vive come io le ho fatte degne di essere. E il grado e il modo di questa vita è naturalmente il mio essere stesso e nella sua continuità e nella sua momentaneità. Un terrazzo giallo con una casetta. grigia nel cielo celeste; cose di muro e d'aria. Ma d'improvviso le guardo e le rivedo, qualcosa di navigante e aggressivo, come un rimbalzo e il giallo non é più un colore di muro, è un grido sbandierato e la casa é una teca d'argento per molte segrete reliquie, e il cielo si affaccia e tutto diviene visi, ma visi come presenze e poi veramente canti che distaccano in quel luogo l'apparenza dalla sua materia e la fanno viva, autonoma, umana e in dispiegamento di espressioni in sorriso di cose che si possono guardare e sentire con l'animo e con le scorze di tutti i sensi. E poi dipingete!



(Novembre '54)

Dovrei scrivere alcune pagine sulla mia regia del Poverello di Copeau. E prima di tutto che cosa é quel testo? Che cosa rappresenta nella storia del teatro e in particolare della regia?

Nell'arte dell'interpretazione viene sempre il momento d'una crisi. E' quello in cui si dubita dell'autenticità o della sincerità. "Sono io" - si domanda l'attore "sono io veramente in contatto conla verità? Quello che io dico da quanti legami é trattenuto nel suo vero profondo manifestarsi?

Credo che il Poverello di Copeau sia nato proprio da una crisi di questo genere, teatrale e poetica ed abbia dato uno di quei tipici drammi in cui la crisi di un attore o di un regista si possono risolvere e arricchire di nuove armi.

Come per la sua scuola Copeau si era osta la domanda se non fosse grave e quasi peccato impegnare così totalmente l'anima d'un attore quasi togliendo o almeno sottraendo a Dio ciò che più di diritto gli è riservato, così, spinto dallo stesso rigore spirituale, si é chiesto se non sia veramente altrettanto grave e quasi peccato non utilizzare un fenomeno così mirabile quale la possibilità di ripetere e rivivere le parole per altri fini che non siano la ripetizione di parole memorabili o addirittura sacre.

Per la scuola, Copeau il problema lo risolve sopprimendola, per il dramma rendendogli la dignità di parole proferibili tutte in funzione di una profonda fede da difendere in una recitazione di integrale sincerità.

Ma egli non aveva più a chi far recitare il suo dramma. Avrebbe preferito come lasciò che si facesse una recita da parte di religiosi nei quali la volontà di dichiarare le parole sante avrebbe certo secondo lui degnamente sostituito e con vantaggio i lenocini d'uri arte, o meglio d'un mestiere troppo disabituato alla assoluta dignità del verbo.

Avrebbe tentato con attori preparati in precedenza al particolare lavoro se non avesse dovuto, assai prematuramente soccombere al male. E forse lo avrebbe fatto con quelli stessi attori che preparati nello studio ispirato al suo insegnamento lo realizzarono poi con la mia guida a S.Miniato.

Io ho avuto la fortuna di dover affrontare un problema del genere di quelli che si presentano in un momento di crisi fin dal mio primo lavoro di regista. Credo anzi che averlo da risolvere prima di ogni problema di caratterizzazione più o meno pittoresco abbia non poco condizionato le mie vedute sulla regia e sulla drammaturgia. la verità? Quello che io dico da quanti legami é trattenuto nel suo vero profondo manifestarsi?

Credo che il Poverello di Copeau sia nato proprio da una crisi di questo genere, teatrale e poetica ed abbia dato uno di quei tipici drammi in cui la crisi di un attore o di un regista si possono risolvere e arricchire di nuove armi.

Come per la sua scuola Copeau si era osta la domanda se non fosse grave e quasi peccato impegnare così totalmente l'anima d'un attore quasi togliendo o almeno sottraendo a Dio ciò che più di diritto gli è riservato, così, spinto dallo stesso rigore spirituale, si é chiesto se non sia veramente altrettanto grave e quasi peccato non utilizzare un fenomeno così mirabile quale la possibilità di ripetere e rivivere le parole per altri fini che non siano la ripetizione di parole memorabili o addirittura sacre.

Per la scuola, Copeau il problema lo risolve sopprimendola, per il dramma rendendogli la dignità di parole proferibili tutte in funzione di una profonda fede da difendere in una recitazione di integrale sincerità.

Ma egli non aveva più a chi far recitare il suo dramma. Avrebbe preferito come lasciò che si facesse una recita da parte di religiosi nei quali la volontà di dichiarare le parole sante avrebbe certo secondo lui degnamente sostituito e con vantaggio i lenocini d'uri arte, o meglio d'un mestiere troppo disabituato alla assoluta dignità del verbo.

Avrebbe tentato con attori preparati in precedenza al particolare lavoro se non avesse dovuto, assai prematuramente soccombere al male. E forse lo avrebbe fatto con quelli stessi attori che preparati nello studio ispirato al suo insegnamento lo realizzarono poi con la mia guida a S.Miniato.

Io ho avuto la fortuna di dover affrontare un problema del genere di quelli che si presentano in un momento di crisi fin dal mio primo lavoro di regista. Credo anzi che averlo da risolvere prima di ogni problema di caratterizzazione più o meno pittoresco abbia non poco condizionato le mie vedute sulla regia e sulla drammaturgia. Quando dovetti mettere in scena "Donna del Paradiso", ormai notissima raccolta di laudi medievali mi avvenne di preoccuparmene subito in chiave di rigore e di sincerità assai prima, fortunatamente, che in quella di caratterizzazione stilistica. Il problema di "far parlare i santi" mi si impose nella sua affascinante assurdità e in tutta la sua portata educativa.

Più delle graziose rime e del loro sapore romanico-gotico mi preoccupò il tono in sé del personaggio sacro.

Chiedere all'attore di mettersi il cuore in mano é cosa ben diversa che chiedergli di crearsi un cuore così e così. Ma per che via entrare in questa anima, persuaderla a lasciarsi parlare con il cuore sulle labbra e sulle mani prima che una pensosa maturità non sia venuta a pretendere soluzione di problemi come quelli accennati o il dono di un intimo candore non abbia forzato più coloriti sentimenti a bruciarsi in suo onore?

Anche al personaggio di S.Francesco avevo avuto la fortuna di avvicinarmi prima del giorno in cui mi toccò realizzarlo sulla scena.

Per arrivare ad affrontare un personaggio di questa semplicità così immensa bisogna profondamente temere di riuscire falsi, artificiosi, manierati. E così mi avvenne di poter ripetere all'attore che si avvicinava alla parte di Francesco parole di cui avevo già sperimentato l'efficacia. "Ricordati sempre il Cantico delle Creature. Francesco é come ognuna delle creature esaltate da quella laude e lo é contemporaneamente in modo meraviglioso e apparentemente assurda unità. Puoi cercare di riflettere a quello che ti dico, confrontando proprio termine a termine e attribuendo ogni termine alla persona del Santo e tentando di immaginare come ognuna delle qualità delle creature lodate possa divenire forma vera di gesto, di atti, di voce, in una superiore e soprannaturale creatura la quale tuttavia non dovrà mai perdere il suo carattere fondamentale di essere credibile possibile vero.



(22/9/56)



Fraternità degli esseri e delle cose in Dio, come diceva Francesco d’Assisi. Padre, per via di Dante e di Giotto di tutta l’arte italiana. Fraternità e mimica. Mimica e testimonianza di Dio.



La sapienza di Dio mi par di vederla in questo immenso operare della natura in tutti i suoi esseri, in tutto il suo essere, questo infinito laboratorio, questo infinito soffrire la vita in modi mirabilmente diversi e simili: l’amore, il dolore, il nido, la morte; e questo infinito variare di forme, di colori, di odori, queste bellezze nascoste e perfino invisibili, quest’ordine che si sprofonda nella materia e nel cielo come una garanzia che potremo sprofondarvi un giorno se tutto é così pronto al desiderio umano, tutto già così fraterno, e tutto disposto a farsi leggere. La sapienza di Dio poteva veramente essere insondabile, impraticabile alla mente umana:

essa invece desidera “esse cum filiis hominun”la Sapienza di Dio gode d’esser fra gli uomini. Ed é giusto che si offra agli uomini con l’aspetto della loro passione. Direi che “Monna Lisa” é la sapienza, che “David” é la sapienza, che la “Tempesta” é la sapienza ecc.. .Meglio, che in tutto ciò che per l’uomo é il “senso” dell’essere é la sapienza di Dio.

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Ma debbo arrivare meglio a identificare questa fraternità in Dio, questo somigliare, questo pregare, questo somigliare, questo pregare, questo ludere con la Sapienza e con la mimica. Ci siamo vicini.

Lauda. Ludus (etimo alla medievale)



(1947)

Devo fare una conversazione sull’insegnamento dell’arte scenica. Naturalmente la basserò nell’insegnamento che tengo io all’accademia e che intende preparare gli attori in una sfera di attività che é indispensabile e precedente a qualunque intervento registico di qualunque genere sia. Infatti é inutile pretendere

dall’attore un’interpretazione psicologistica, o anche

semplicemente grafica se l’attore non é già un attore, cioè nonpossiede in sé il modo, direi il segreto o anche l'attitudine di atteggiarsi secondo una idea. Questa idea può mutare; il meccanismo per il quale l'attore si fa simile ad essa, anzi, diviene rappresentazione di essa esteriormente leggibile, obbiettivamente leggibile, non può essere che uno solo.



(29/8/66)

Comincio a rilevare l'importanza essenziale ai fini dello sviluppo dell'individuo animale superiore dell'istinto dell'imitazione. Attraverso esso il piccolo, imitando l'adulto; acquista il carattere definitivo della specie, le abitudini, le qualità. L'uomo partecipa di questo istinto di imitazione; tuttavia la sua attenzione non si limita agl'individui della sua specie, ma va a tutto ciò che può considerare individuale che sia animato o inanimato ed esercita il suo istinto di "imitazione" su ogni oggetto della sua attenzione. Sennonché l'imitazione puramente animale si esercita per ripetizione "membro a membro" di un atto o di una serie di atti e con il piccolo d'uomo (e poi anche l'uomo maturo) che si eserciti all'imitazione di oggetti (animali, cose, fenomeni) si trova senza membri identici atti all'imitazione; oppure, quasi senza accorgersene, e seguendo un altro istinto che chiamo "mimico" valica con tutta spontaneità questo limite d'impossibilità e continua ad imitare senza corrispondenza di membri identici (giacché l'identità é ormai esclusa) attribuendo ad alcune delle sue membra il ruolo di altre e dei più diversi aspetti degli oggetti considerati, realizzando, mediante nuove e del tutto astratte azioni e serie di azioni, un nuovo tipo d'imitazione analogica che deve essere chiamata in un altro modo per il suo nuovo carattere.

Dall"imitare" si passa al "mimare". Dalla pura e semplice ripetizione si passa ad una funzione che é nello stesso tempo interpretativa e creativa. Interpretativa perché no potendo riprodurre traduce, creativa perché la scelta degli arti espressivi non é meccanicamente automatica ma é affidata alla natura dell'individuo. E' in questo modo che, penso io, (ma esistono varie filosofie e psicologie estetiche che mi confortano avvicinandosi aqueste idee) nasce l'espressione, il desiderio di dichiarare ciò che si sente e si prova identificandosi con l'oggetto della propria attenzione, rispecchiandolo e dandogli la personalità che attribuiremmo alla forma umana così trasformata e lasciandola o facendola "manifestare" attraverso gli atti convenienti ad essa.

Così superata l'imitazione entriamo rapidamente nel mondo privato dell'interpreto-creazione o della "mimazione" (non uso la parola mimesi, più elegante per evitare confusioni con concezioni filosofiche diverse).

Io credo che ogni arte nasce nella "mimazione". Cominciando dalla prima di tutte che é la danza. Poi la musica, che prima col canto (azione parallela alla danza) poi con gli strumenti riproduce il corso astratto della danza esteriore e poi interiore. Per il disegno, inizialmente semplice involontaria "traccia" del gesto o del movimento danzato, poi col segno registrazione volontaria di un atto mimico. Poi la scultura "impronta" di gesti. Seguiranno queste arti primitive le arti riflesse e composite. La poesia - la pittura - l'architettura. Ognuna di esse incontrandosi con altre realtà: del linguaggio, aggiunto al ritmo e al canto; del colore aggiunto al disegno o alla plastica; del rifugio incontratosi con la possibilità di imitarlo e poi di mimarlo: il riparo diventa letto.

L'azione mimica é dunque interpretazione della realtà e creazione di una rappresentazione di essa per lo più in forme originariamente astratte e non figurative

Esistono arti che hanno una realtà nella loro "registrazione". Disegno, scultura e anche poesia, dopo l'invenzione della scrittura e naturalmente architettura.

Che cos'é dunque la registrazione di un fatto artistico? Che cos'è un'opera d'arte, un prodotto artistico, un manufatto?

E' la memoria registrata, fissata, conservata di una condizione mimico-creativa, provata, patita, vissuta o rivissuta da un uomo in uno stato eccezionale che si accompagna spesso o si origina in una particolare esaltazione dell'essere che suole chiamarsi ispirazione.

Così un sonetto, un poema, un disegno una pittura, una statua, uri architettura al livello estetico ( e no puramente utilitario) un film, una danza, una musica, un dramma, sono la registrazione di una danza interiore che ha trovato modo di esprimersi per mezzo del linguaggio proprio alle diverse arti ma che si può comunque far risalire ad attività mimico creative.

In questo modo risulta abbastanza chiaro che a tutto rigore quasi ogni opera d'arte ha bisogno di essere ricondotta attraverso l'interpretazione a quella temperatura creativa nella quale fu ideata ed espressa.

Nasce il problema dell'interprete e della sua educazione.

E riosserviamo quindi l'uomo per poterlo educare artisticamente considerandolo fondamentalmente osservatore (o spettatore) della realtà esterna e in un secondo tempo anche di quella interiore che n molti casi gli sarà rivelata da quella esterna mentre quella esterna viene al suo intuito già accompagnata da una più o meno evidente tinteggiatura di mondo interiore.

Si tratta semplicemente di fargli ripercorrere e ritrovare consapevolmente la strada già fatta inconsciamente nell'incontro con la natura, fargli scoprire e gustare il fascino del comportamento mimico, renderlo edotto di tutti i passi successivi toccati dal procedere da un tipo di oggetti all'altro (oggetto immobile, oggetto mobile, fenomeno meteorico, ecc.) dal singolo alla serie (albero, bosco; onda mare, pecora, gregge; uccello, stormo; monte, catena di monti) dall'oggetto come totalità all'oggetto come composizione (albero e poi radici, tronco, rami, fronde, frutti; ma anche fiori - o frutti - fronde, rami, tronco, radici, e altre varianti di ordine) dall'insieme omogeneo ( un elemento di panorama : una casa, un fiume, a molti elementi collegati in ordine di spazio o d'importanza o di progressione emozionale). Indi far constatare come ogni impressione, intuizione, possibilità di definire l'oggetto e il fenomeno derivino dalla forma assunta nel mimarli. E' per ciò che - nella più semplice delle esemplificazioni - il salice si chiama "piangente" la quercia "robusta" - tra l'altro il nome latino di quercia é proprio "robur" - la mantide "religiosa" e così via.

Far constatare poi che nei passaggi da un momento all'altro di una "mimazione" prolungata si presentano dei punti di sutura, delle articolazioni o giunture per cui si passa da una forma ad un'altra, da uno stato di tensione ad un altro. Poiché col variare dell'oggetto anche la condizione fisica della tensione varia: possiamo sentirci minerale magnesio e minerale piombo, liquido acqua e liquido mercurio, gas aria e vento, materia allo stato di plasma e così via.

E' chiaro che per l'attore sarà importante rendersi conto al più presto della plasticità del suo apparato fonatorio e respiratorio per potere mediante l'invito dell'aspetto esterno modificare sottilmente le intonazioni vocali.

A questo punto l'allievo interprete é in grado di comprendere, passando allo studio applicato e analitico della sua arte (verso la quale lo avranno diretto tipici aspetti del suo lavoro mimico) come l'operazione fatta direttamente sulla realtà dall'autore (poeta, pittore, musicista) grazie alla mimazione, sia poi stata tradotta in opera d'arte. Analizzando la quel non sarà difficile (talvolta difficilissimo) scoprire gli originali movimenti mimici che avranno originato l'insieme e i diversi momenti di essa.

L'interprete ora possiede lo strumento (il suo fisico educato alla mimazione) per mettersi di fronte all'opera d'arte e ai suoi aspetti come di fronte ad una realtà già qualificata.

Se cioè osservando la realtà avrà potuto scegliere in essa elementi diversi secondo le sue predilezioni e tendenze ora accetterà il lavoro già fatto allo stesso modo (o in modo assai analogo) dall'autore e sposerà (se così può dirsi) quell'interpretazione da lui assunta con tutta la sua attività plastica e conseguentemente potrà ricreare (con felice approssimazione - poiché il linguaggio é in comune e ridotto a quanto abbiamo di più comune, il nostro fisico) la condizione creativa delle parti e dell'insieme, riprovarne l'emozione e attraverso successive prove riuscirà a comunicarla (anche qui con felice approssimazione ) allo spettatore.

Non vorrei trattenerti ancora troppo su questi problemi che potrebbero non interessarti o che potrei non essere riuscito a chiarirti abbastanza. Un corso di questo genere dura tre anni. Io sto concentrandolo in poche pagine e senza gli esempi la cosa può sembrare secondo i casi o banale o incomprensibile



(23/10/58)

Se c'é un poeta il personaggio é un frutto d'immagini che gli sono proprie. Le sue parole devono servire a far valere quell'immagine e tutte le sue varianze nell'iride dello stile. Quella é la sua vita. Egli crea da sé il suo spazio; il suo tempo, il suo ritmo; il suo colore la sua musica e il uso passo e, se vi serve, la sua psicologia. Ognuno la sua, proiezione di quella costellazione d'immagini che egli é. Costellazione fissa nello spazio astratto del testo, ma variabile nelle sue ognor varie proiezioni - nei momenti di tempo che sono le battute.

(Non capisco perché mai ho scritto così disordinatamente. Volevo dire. Se il testo é d'un poeta il personaggio é il risultato della "personificazione d'immagini" che lo riguardano. Questa "personificazione" é una "immagine vivente" ma non in quanto "vuole" riprodurre un uomo, ma in quanto é la vivificazione d' immagini. La densità di queste immagini varia da stile a stile; talora queste immagini sno immerse in un connettivo di parole che sono loro emanazione e devono servire a mantenere in vita a rappresentare la vita di quelle immagini e dell'immagine vivificata che ne risulta....).



(1/2/61)

Ancora una volta di più si dimostra che fare l'attore non é affatto impersonare una parte su una falsariga psicologicamente elaborata, ma bensì assumere o sposare un comportamento in sé astratto che solo a posteriori ricostruisce un evento drammatico, che può essere monologico o dialogico, del tutto indifferentemente. Pensiamo alla mimica di uri onda contro uno scoglio. E' un unico fatto che richiede due comportamenti distinti; ma in cui ognuno dei due aiuta a mettere in evidenza l'altro e senza che ciò rechi

disturbo all'unità dell'interprete.







(21/6/61)

In foto Paolo Bussagli, attore drammaturgo e regista. Allievo di Orazio Costa lavora a Firenze
Ogni "svisceramento" di carattere narrativo (metodo Stanislawski) sopra un testo drammatico é una sopraffazione o é una inutile petizione di principio. L'unica ricerca che può essere giustificata é sul non visibile ritmico e formale a cui va ispirata tutta la rappresentazione. E' evidente che i "dati narrativi" saranno tenuti nella giusta considerazione come elementi modificatori o condizionanti delle forme espressive che però in poesia renderanno il loro avvio (anche se finiranno per prendere un aspetto narrativo) dai dati formai traducibili (immagini, ritmi, colpi di scena e nodi drammatici) e (soprattutto nel caso di un testo nella lingua dell'autore) anche dai dati formali meno o non traducibili "I suoni, i valori simbolici, le immagini concomitanti " ecc.ecc.

Sul confine- Compagnia Carrozzeria Orfeo- Premio Dante Cappelletti

al centro Gabriele Di Luca con Massimiliano Setti in Nuvole barocche
Poggibonsi.
Al Teatro Verdi  ieri sera una prova d'autore in essenzialità ed eleganza.  Prodotto dalla giovane Compagnia formatasi a Udine presso la Scuola d'Arte Drammatica Nico Pepe, lo spettacolo Sul confine, per la drammaturgia di Gabriele Di Luca anche in scena insieme a Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi è un esempio interessante per questa stagione teatrale di come le nuove leve siano in grado di pensare e ripensare la scena italiana grazie a idee originali, ottime scuole di riferimento anche internazionali, in grado di offrire emozioni, riflessioni sulla contemporaneità giovanile e sociale, senza il vizio italico della retorica e del moralismo. Una prova in bilico fra coreografia e drammaturgia- efficace, per squarci e per frammenti ma molto ben integrata alle azioni. La tematica dellla guerra come operazione di pace, il coinvolgimento quasi occasionale, niente affatto politico di tre ragazzi coetanei  alle prese con lavoretti mal retribuiti o non adeguati, insomma l'occasione che può cambiare la vita guadagando in fretta ciò che invece farebbe faticare per mesi e mesi, l'incontro su un metafisico campo di guerra,  atmosfere rarefatte fra la notte e il giorno- accattivante e funzionale il gioco-danza delle torce fra i corpi allenati e induriti dalle prime shoccanti esperienze. No, la missione di pace non è decisamente una missione per la pace ma una sporca guerra da dove forse non si tornerà più, contaminati dall'uranio, nascosti dalle alte sfere per non creare panico fra i commilitoni. Segreti dell'Esercito italiano specie sul fronte dei Balcani
Il lavoro che è valso a Gabriele Di Luca il primo Premio Tuttoteatro.com dedicato al compianto Dante Cappelletti, è davvero un buon  esempio di come i trentenni sappiano lavorare in strettezze di mezzi ma straordinaria energia di idee e muscolarità, come deve essere un teatro di movimento come questo testo sembra sugger4ire. Belle anche le  musiche, ritmate, di Massimiliano Setti.